Draghi rompe il tabù
Serve più domanda interna, non più delocalizzazioni
24/03/2025
di Giovanni Clerici

Per troppo tempo l’Europa ha costruito la propria competitività sul contenimento salariale, nella convinzione che mantenere bassi i costi del lavoro fosse l’unica strada per restare al passo con le economie emergenti e con le grandi potenze industriali. Questo approccio ha finito per indebolire progressivamente il mercato interno, sacrificando la domanda interna sull’altare dell’export e rendendo l’intero sistema economico europeo fragile e dipendente dalle dinamiche globali. Mario Draghi, nel suo recente rapporto alla Commissione Europea, ha avuto il merito e il coraggio di dire chiaramente che questa strategia ha esaurito il suo corso. Continuare a rincorrere la concorrenza globale giocando al ribasso sui salari significa solo perpetuare stagnazione e disuguaglianza. È tempo, invece, di invertire la rotta.
Non è il momento di fare una guerra di dazi o di chiudersi in un protezionismo cieco, ma è altrettanto chiaro che la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta ha fallito. Ha promesso benessere diffuso, ma ha spesso consegnato precarietà, delocalizzazioni, compressione dei diritti sociali e aumento delle disuguaglianze. Basta guardare alla parabola dell’industria tessile in Italia: un tempo cuore pulsante del Made in Italy, oggi ridotta in molti territori a una manciata di laboratori sopravvissuti, mentre gran parte della produzione è stata trasferita in Paesi dove il costo del lavoro è irrisorio e i diritti dei lavoratori inesistenti. Il prezzo pagato è stato altissimo, non solo in termini occupazionali, ma anche in perdita di know-how, di identità industriale e di valore aggiunto.
O ancora, si pensi al settore dell’elettronica o dell’automotive: intere filiere spostate all’estero per risparmiare pochi centesimi a componente, salvo poi scoprire – durante la pandemia – che la dipendenza da forniture asiatiche rappresenta un enorme rischio strategico. La carenza globale di microchip, ad esempio, ha mandato in crisi la produzione europea per mesi, rallentando persino le catene di montaggio di colossi come Volkswagen, Stellantis e Renault. È stato un campanello d’allarme che ha reso evidente a tutti quanto sia illusorio puntare tutto sulla globalizzazione senza costruire un’economia solida e autonoma al proprio interno.
Oggi serve una risposta diversa, una strategia che metta al centro la ricostruzione della ricchezza interna ai Paesi, partendo proprio dal rafforzamento dei consumi interni. E per farlo non basta aumentare artificialmente la spesa: bisogna agire sulla leva più potente che abbiamo a disposizione, quella degli stipendi. Aumentare i salari reali significa dare fiato alle famiglie, sostenere le imprese locali, far crescere l’occupazione qualificata e innescare un circolo virtuoso di sviluppo sostenibile. Un esempio virtuoso si trova in Germania, dove negli ultimi anni – anche sotto la spinta dei sindacati e della politica industriale – si è assistito a un aumento dei salari minimi, che ha rafforzato il potere d’acquisto della classe media e sostenuto la ripresa post-Covid.
Al contrario, in altri contesti, le politiche legate alla globalizzazione hanno avuto effetti opposti, contribuendo all’indebolimento del tessuto produttivo tedesco facendola scivolare verso una fase di recessione.
Ma per rendere sostenibile un aumento generalizzato dei salari, è necessario abbattere un altro muro: quello dell’oppressione fiscale. Ridurre le tasse sul lavoro e sulle imprese sane non è più una scelta politica, è una priorità economica. Non si tratta di fare regali, ma di liberare risorse che possono essere reinvestite nell’economia reale. L’Italia, ad esempio, ha uno dei cunei fiscali più alti d’Europa: una riforma strutturale che riduca il peso delle tasse sul lavoro potrebbe dare ossigeno immediato a milioni di lavoratori e rilanciare la domanda interna, favorendo così anche le imprese che operano nel Paese.
La vera abolizione della globalizzazione non si fa alzando barriere, ma seminando ricchezza nei propri territori. Riportare la produzione vicino ai luoghi del consumo, rafforzare le filiere locali, investire in innovazione e capitale umano: queste sono le basi su cui fondare una nuova sovranità economica, che non esclude il mondo ma non si fa più travolgere da esso. Dopo decenni di rincorsa sterile ai vantaggi comparati, è arrivato il momento di riscoprire i valori reali dell’economia: dignità del lavoro, prosperità diffusa, sviluppo sostenibile. L’Europa ha davanti a sé una sfida storica, e finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di dirlo con chiarezza.
(riproduzione riservata)